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IANVA INTERVIEW @ OCCIDENTAL CONGRESS (I)  by Il Levriero Staff 04/08/2011 at 21:51
Per dovere di completezza rispetto a quanto compare PARZIALMENTE in rete.

Un grazie a "Occidental Congress" per la concessione.

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Una domanda che forse potrebbe suonare un po’ troppo diretta, ma che trovo necessaria per aprire questa intervista: molto spesso IANVA mi ha dato l’impressione di essere un’idea nata da forme di urgenza e – soprattutto – reazione. Possibile che foste così «stanchi di provare vergogna»?

Mercy: E’ una domanda intelligente e, come tale, fa bene a non temere la formulazione diretta.
Il ragionamento potrebbe essere questo: fino a che punto gli uomini possono coesistere con la sensazione di essere divenuti, come cittadini, come soggetti pensanti e come parti sociali del tutto irrilevanti, anzi, obsoleti? Esistono studi che dimostrano come la permanenza durevole in uno stato di frustrazione, umiliazione e vessazione conducono inevitabilmente a patologie anche mortali. La sconfitta è un evento traumatico, ma limitato temporalmente. Non esclude a priori la possibilità di un risvolto fecondo. Il permanere in una condizione di sconfitta perenne, anche se a bassa intensità, credo sia la ricetta per condurre all’estinzione un popolo.
IANVA, al contrario, è una ricetta reattiva. Una trovata che, se pure sul piano estetico e formale pare guardare al passato, nella realtà è del tutto consequenziale del tempo presente. Infatti qual è la cifra fondante della contemporaneità? Secondo noi è la totale impossibilità per gli uomini di questo tempo di rientrare nella prassi dell’azione.
Avendo valutato a suo tempo, e con freddo realismo, questo stato di cose, abbiamo ritenuto valesse la pena di mettere in campo un tentativo di ricreazione di un “immaginario” bonificato e, conseguentemente, contemplante l’azione come orizzonte nuovamente possibile.


Vi presentate come un gruppo piuttosto numeroso e ben variegato. Quale prodigio alchemico (o democratico?) impiegate per tenere in piedi una struttura che sembra più simile ad una piccola orchestra piuttosto che ad una band in senso tradizionale?

Mercy: Esercitando l’arte della diplomazia. Che è diverso dai volgari manipolatori che pure affermano di essere interessati alle alchimie umane. E che nello stesso tempo tiene in debito disprezzo la democrazia com’è oggi comunemente intesa. Le opinioni di ognuno pesano, ma la mia pesa più di tutte. Ed è un primato, questo, che, nel ristretto ambito della band, mi sono guadagnato sul campo, a differenza di ogni autorità frutto dell’equivoco democratico. È ovvio che ogni struttura contiene in sé i germi della disgregazione. Il titanismo di una specie, per altri versi goffa e insignificante come quella umana, consiste esattamente in questo: nel sapersi opporre con successo al destino comune della materia, se lasciata andare per il suo verso. L’entropia e la disgregazione fino all’indifferenziato e al nulla. Ogni civiltà, anche le più fondate sul ferro delle armi, hanno sempre tenuto in gran conto l’arte diplomatica. La moderna democrazia no: non ha altro referente che se stessa e risulta, alla lunga, annichilente. Produce unicamente immaginari meschini e, sia pure in quel suo modo ipocrita, è ferocissima nella riduzione a sé della diversità che la circonda. Che è poi la diversità irriducibile del mondo e delle cose umane.
IANVA era nata per essere un esperimento, un tester. Mi sta insegnando una quantità di cose e mi sta mettendo nella condizione di verificare alcune idee a cui ero pervenuto per mio conto e che saranno palesate a tempo debito.


Osservando le vostre copertine sorgono spontanei alcuni interrogativi: in Disobbedisco! sono lampanti i richiami all’impresa fiumana, mentre L’Occidente e Italia: Ultimo Atto presentano delle soluzioni grafiche piuttosto alternative. È palpabile un particolare senso di nostalgia commisto ad uno spirito popolare: l’idea di una «onesta scorza» a cui sembra poter idealmente partecipare l’intero Bel Paese. Cosa si cela effettivamente dietro a queste scelte stilistiche, che cosa sentivate di voler comunicare impiegando delle immagini così singolari da sembrare delle locandine cinematografiche d’annata?

Mercy: L’impressione che oggi qualunque straniero riceve da questo paese è quella che la gente che lo abita non abbia una storia, non abbia padri, tanto meno “nobili”, e viva una sorta di “infinito quotidiano”. Senza allegria, ma anche senza rabbia. Che la sua apatia sia davvero la sola legittimazione di chi la comanda. Che nasca cittadina non di un luogo, ma di “tempo” che, guarda caso, è sempre e invariabilmente quello presente. Una nazione invertebrata bastante da sé a giustificare pienamente lo scempio che chiunque, fosse pure arrivato da poche ore, ritiene a buona ragione di poterne fare. Dico ragione perché è questa che, in effetti, hanno costoro. La ragione della vitalità, della coscienza di sé, della necessità, della demografia e della forza. Che sono poi le uniche ragioni che la Storia riconosce. Il resto sono solo chiacchiere a uso di salottini televisivi e di maestrine fica-di-legno che leggono “La Repubblica delle Donne” e “Il Manifesto”.
Ma ciò che è peggio, e che risulta francamente incredibile, è che un popolo così tenacemente avvinto alle peggiori mitologie del nostro tempo, così permeabile dalla volgarità, dalla bruttezza, dalla mediocrità e dalla disarmonia discenda direttamente da quello che, fin dall’antichità, colmò questa terra di Arte e bellezza fino a farlo letteralmente traboccare.
Lo stesso paesaggio, già favorito dalla natura, portò a lungo, e in molti casi porta ancora, profondamente impressa l’impronta del gusto ordinatore di innumerevoli generazioni di lavoro umano. L’Italiano d’un tempo, anche se infingardo o miserabile, raramente risultava volgare. I viaggiatori stranieri, specie quelli illustri, restavano colpiti dalla grazia innata, dalla profonda comunione con la bellezza che traspariva anche dalle opere più umili e dall’artigianato più funzionale. Tutto ciò, a mio avviso, si è esteso, in forme e applicazioni rinnovate lungo quasi tutto il ’900, ed è stato definitivamente annientato nella “normalizzazione” del paese in seno a un generico Occidente liberal-capitalista. Il cosiddetto Mercato, con le sue costrizioni e la sua pialla globale, è stato una vera metastasi cancerosa per un paese abituato a far scaturire i suoi equilibri dai tempi e dai modi dell’esperienza estetica piuttosto che dalle dinamiche della speculazione finanziaria. Il fatto che anche menti molto dotate, oggi, non riescano a produrre nulla di esteticamente rilevante, temiamo sia conseguente alla cessata domanda da parte della popolazione tutta.
Gli italiani furono convinti dal fascismo anche in virtù dell’opera di estetizzazione della politica che esso seppe realizzare. Da questo punto di vista fu una risposta efficace a una richiesta che arrivava dal basso. E solo quando la forbice tra premessa estetica e realtà effettuale fu troppo divaricata si consumò il primo raffreddamento tra corpo sociale e regime.
Viceversa, l’esperienza estetica anti-fascista più rilevante venne fornita, nel primo dopoguerra, dal neorealismo. Fa uno strano effetto assistere oggi allo spettacolo fornito da una filmografia tutta tesa a fornire della realtà nazionale un’istantanea dura, deprimente, talvolta sordida e che pure risultava esteticamente impeccabile. L’arte minore della locandina o quella della cartellonistica cinematografica, come, del resto, le riviste specializzate in cinema che, in quegli anni in cui molti generi alimentari erano ancora razionati, uscivano copiose, ci restituiscono la stessa impressione. Come di un qualcosa, cioè, miracolosamente in equilibrio tra realismo didascalico e arte moderna, tra presenza sociale e concessione al gusto popolare che non è mai compiutamente realistico. Bensì ostinatamente avvinto a quello che, ossimoricamente, alla Pasolini, amiamo definire “realismo fiabesco”. Questo è uno snodo importante che ci ha permesso di riannodare le fila di quel “Volkgeist” che parevano disperse nella multicentricità dell’età contemporanea. L’arte popolare aveva sempre sentito la necessità di figure archetipiche semplicemente perché la realtà, se correttamente rappresentata, risultava insufficiente a spiegare se stessa. L’incontro di questa esigenza con le esperienze di avanguardia estetica del ’900 ha prodotto gli stili ai quali IANVA, con piena consapevolezza, si riferisce.


L’Occidente una volta minacciato alla sua “Soglia d’Oriente” da forze che volevano «…cancellare
le tracce di Storia passata di qua» è oggi agonizzante, appiattito e senza guida in quel sistema liberal-mercantile da te citato, un sistema in cui s’è gettato volontariamente. Sta quindi, oggi, cancellando la sua Storia con le proprie mani? Come combattere una battaglia contro un nemico senza esercito, senza patria e senza passato? L’eventuale sconfitta sarebbe questa volta definitiva?

Mercy: La sconfitta è già definitiva. Ragionandoci a mente fredda apparirà evidente che, nelle scontro di forze attualmente in atto, l’Europa può aspirare, al massimo, a trasformarsi dalla colonia americana che è, nonché, landa di perenne saccheggio da parte degli oligopoli finanziari di cui gli USA sono il braccio armato, in ciò che il suo assetto geo-strategico dimostra impietosamente: un promontorio periferico del continente asiatico.
Per di più è chiaro che quanto servirebbe per alimentare una sia pur tenue speranza, leggi una passabile tenuta demografica, culturale, progettuale, sia sul piano produttivo che su quello della ricerca fino al campo del puro immaginario, tutto quello, cioè, che, in assenza di reale forza e incidenza politico-militare, riesce, nondimeno, a fare di una turba insignificante un popolo, è esattamente ciò che è evaporato sotto i nostri occhi in questi ultimi anni. La produzione si è delocalizzata, la demografia è una curva verso l’abisso e la popolazione viene rapidamente sostituita da allogeni, la cultura corrente è un groviglio di cascami americani e di nuovi primitivismi locali, per lo più di origine televisiva, i valori correnti inchiodati a un a sorta di bivio psicotico tra il più spietato degli egoismi e il più untuoso e mellifluo degli irenismi. Una ricetta perfetta per l’auto-eutanasia.
Chiunque, nel limite delle sue forze, delle sue risorse e delle sue peculiarità, scelga di battersi deve essere consapevole di farlo non perché esiste sulla carta una sia pur vaga possibilità di successo, ma, semplicemente, perché è una bella battaglia. Forse, azzardo, la più bella di sempre.
Diversamente c’è sempre l’alternativa a portata di mano: il mondo che ci stanno preparando là fuori. Uno può sempre scegliere la via della docilità nella speranza di ricavarci un suo cantuccio. Personalmente sento, quantomeno, il dovere di avvisare che, quando sarà messo a punto ossia tra breve, di certo non sarà un bel luogo dove vivere. E dove ricavarsi cantucci sarà un’impresa ben lungi dall’essere alla portata di tutti.


Nemo propheta in patria… per il vostro esordio dal vivo abbiamo dovuto raggiungere il cantone francese della Svizzera (Yverdon-les-Bains, aprile 2006). L’avevate immaginato così, il vostro primo concerto? E oggi, a cinque anni da quella data, come si sono evolute le cose?

Mercy: Intanto c’è di che restare angosciati nel constatare quanto il tempo acceleri mano mano che la vita procede e quanto tutto sia materia volatile. Chiedo scusa a tutti per queste ovvietà, ma la fenomenologia del tempo resta la mia banalità preferita.
Un’esperienza come IANVA serve a scoprire come il passato sia, tra le cose, quella meno passata di tutte. Solo il presente fugge per sempre ed è questo che occorre agguantare, prima che lui agguanti te. Anche da questo punto di vista siamo riusciti a essere un fenomeno strano. Dopo due mini e due album, alcuni concerti in contesti molto importanti, più di sei anni di servizio, nella nostra testa, ma anche in quella di molta gente, permane la percezione di noi come entità relativamente nuova, come ospiti inaspettati giunti a ravvivare una festa che andava facendosi un po’ troppo moscia e prevedibile. L’idea iniziale era quella di portare al centro dell’attenzione un nucleo immaginativo, estetico e meta-politico fortemente riconoscibile. Dopodiché suggerire l’idea che, da noi, era lecito aspettarsi di tutto. Che, fatto salvo quel nucleo, non ci fossero limiti teorici, passibili d’inchiodarci in un segmento temporale specifico.
Se fossi un riccone eccentrico sovvenzionerei musical e cinema “neofolk”, creerei dal nulla un’operazione di “storytelling” sconquassante. Essendo un modesto lavoratore mi devo limitare a dare periodica veridicità a questa narrazione mediante le esibizioni dal vivo. Piaccia o no, quello del concerto è una sorta di rituale. Che, oltretutto, resta ancora a portata, malgrado i tempi rovinosi che viviamo. Ma è essenziale non permettere al pressapochismo, alla faciloneria e all’incompetenza altrui di interferire con la tua narrazione. Per questo ci prepariamo scrupolosamente, ma suoniamo non troppo spesso: vogliamo essere certi che non siano banali problemi tecnici e logistici a disattivare un dispositivo emozionale la cui messa a punto ci è costata non poca fatica. Ma, almeno finora, questa strategia ha pagato. Il solo fatto che IANVA sia, nel suo piccolo, un’entità in costante crescita in una fase storica dove tutto crolla, qualcosa dovrà ben significare.


Ammesso che troviate la cosa rilevante, quale genere di aspettativa nutrite nei confronti del vostro pubblico? Credete di essere riusciti a trasmettere ai vostri ascoltatori quanto avevate creduto (o sperato) di comunicare attraverso la vostra musica?

Mercy: La cosa è rilevantissima, invece. Quando abbiamo iniziato, tecnicamente parlando, non esisteva, almeno sulla carta, un pubblico possibile per IANVA. C’erano, è vero, degli “spiriti dell’aria” ben captabili per chi si mettesse in ascolto. Ma in ascolto davvero e non riproducendo in piccolo, anzi in infimo, la chiacchiera mediatica che ci ha reso stupidi e castrati come uomini e come cittadini.
La verità è che se, poniamo sette, otto anni fa, qualcuno avesse predetto che una torma di germanici che, magari, avevano da poco finito di ballare power-electronics o di vedere un act sinfonico-marziale, potevano entusiasmarsi e commuoversi sulle note de “O’ Surdato ’Nnamurato”, sarebbe stato deriso a morte. Queste persone, malgrado usassero ad ogni istante il termine folk, sottovalutavano il “Volkgeist”. Come non capire che una canzone che ha accompagnato alla morte centinaia di migliaia di ragazzi è in qualche modo “karmata”? Cosa ha recepito, certa gente, dalle letture che afferma di avere fatto? Esistono condizioni dello spirito che sono immutabili ed eterne. Sono fondanti della nostra specie e sono paragonabili a corde che, se adeguatamente toccate, emettono dei suoni in grado di svegliare la parte fiera, leale, audace, collaborativa, in una parola comunitaria che giace in ogni uomo. Mi piaceva l’idea di riuscire a mettere mano a quelle corde. L’uomo, se lasciato libero di diventare compiuto, convive male con la meschinità. Accetta volentieri di mettersi in gioco ed è capace di sfide prodigiose e, quello che è più commovente, del tutto disinteressate. Ma deve percepire che lo scopo è più grande e migliore di lui, sia come singolo che come somma dei suoi simili.
Il problema è che tutto, dicasi tutto, della comunicazione contemporanea, dei valori di cui si fa latrice, dei modelli che propaganda, tende risolutamente all’opposto. Mi piace pensare a IANVA come a una sorta di antidoto. Non potendolo somministrare a dosi massive è un po’ come se me ne andassi per il mondo con un cucchiaino. Ma non puoi immaginare quanta gente mi ha detto che l’aver conosciuto noi l’ha cambiata per sempre. Vogliamo bene al nostro pubblico, pensiamo che sia speciale e, con un po’ di fortuna, ci aiuteremo l’un l’altro a essere sempre migliori.


È pur vero però che proprio in seno al vostro pubblico c’è stato più di un dibattito sulla “posizione ideologica” di IANVA.
Nell’ambiente della cultura “ufficiale”, e perfino in quello della musica underground a quanto pare, certi temi sembrano dover presupporre uno schierarsi definitivo, annullando qualsiasi sfumatura interpretativa anche quando, come nel vostro caso, la Storia è raccontata attraverso percorsi umani ed emotivi che sono centrali nella narrazione.
Ritieni che questa generale incapacità di uscire da dualismi obsoleti complichi la possibilità di trasmettere un messaggio e aumenti il rischio di fraintendimento? Siamo ancora così lontani dalla possibilità di leggere la Storia attraverso gli uomini piuttosto che attraverso qualsivoglia contrapposizione ideologica?

Mercy: Viviamo tempi di pensiero unico. Per altro di giorno in giorno più occhiuto e feroce. Ci sono alcune assolute evidenze delle quali non si può parlare se non attraverso la parafrasi. E anche così assumendosi la responsabilità dei guai in cui si rischia d’incorrere. In Liguria, tanto per dire, la popolazione scolastica che quest’anno ha iniziato la prima superiore è composta al 25% da stranieri. Quella che ha iniziato la prima elementare, invece, vede gli stranieri, per lo più extraeuropei, al 60%. Se consideri che la popolazione locale è formata al 60% da anziani, eccoti servito un bello scenario neppure troppo lontano nel tempo, un quarto di secolo a dir tanto. E cioè la proditoria sostituzione di un popolo con un altro. Un genocidio, per dirla tutta, sia pure diluito nel tempo. Se fossimo liberi di leggere la Storia con gli strumenti concreti della demografia, dell’antropologia e della geopolitica, questa conclusione sarebbe già da tempo accettata da tutti per ciò che è: un dato oggettivo suffragato dalla logica inesorabile dei numeri e non, come si gabella, un’opinione e per di più illecita.
Anche oggi, dunque, viviamo un segmento della Storia e la possibilità di leggerlo attraverso gli uomini e non attraverso le lenti deformanti dell’ideologia, in questo caso l’unica rimasta, quella liberal/capitalista, ci permetterebbe di salvarci letteralmente la vita. Sempre che per vita s’intenda qualcosa che va al di là del puro tempo biologico individuale.
Invece si fa di tutto per mantenere in piedi l’illusione che ideologie, di fatto confinate nel loro tempo, nel secolo scorso, se ne vadano ancora a spasso come zombie per il continente. Il risultato è che la versione Forrest Gump di queste idee che, comunque, mossero milioni di uomini e intere nazioni, sono diventate il balocco per bambinoni che hanno ancora voglia di giocare alla guerra, ma sono anche troppo infrolliti per andare alla ricerca di un nemico vero. Un teatro di burattini di cui i burattinai sono sempre gli stessi.
Infine c’è un ulteriore dato sul quale invito tutti a riflettere. Un tempo esisteva la libertà dell’artista. Un conto era la politica attiva e l’altro l’elaborazione di idee. Oggi, la gente pare avere supinamente accettato che coloro che le idee dovrebbero averle e che dovrebbero agire in conseguenza delle stesse, i politici, siano diventati un concione incolore che non rappresenta nulla a eccezione degli interessi della loro casta. Dei semplici passacarte ed esecutori di ordini superiori che spiovono da altezze sideree. E che, in compenso, chi si occupa di arte, pensiero, estetica e quant’altro, debba essere sempre al vaglio ideologico di certi auto-eletti custodi della libertà, della democrazia, dei diritti umani e di tutte le altre stronzate. E’ diventata una vera forma mentis e, come tale, difficile da contrastare. L’arma che raccomando è sempre la stessa: il rigore logico, il riportare sempre al centro del ragionamento il dato di fatto.


C’è un vecchio brano, saldamente legato al periodo della mia infanzia, per anni mi sono chiesto se mai vi sarebbe stato qualcuno in grado di rispolverarlo da questo mio “baule dei ricordi”; oggi ascoltando i vostri lavori mi convinco del fatto che nessuno meglio di voi potrebbe prendere il carico di questo gravoso testimone: si tratta de La riva bianca, la riva nera, lo conoscete? In caso affermativo mi domando che cosa pensiate delle produzioni di Iva Zanicchi risalenti al medesimo periodo: Un fiume amaro, Coraggio e paura, Mi ha stregato il viso tuo…

Mercy: Sono canzoni per lo più splendide, anche perché, a differenza di quanto accade oggi, la musica leggera si avvaleva di autori di levatura stellare. Basti pensare a ciò che Morricone compose per Mina e per Milva. Ai brani da classifica che portavano la firma di gente come i maestri Gianni Ferrio, Giorgio Calabrese, Riz Ortolani, Armando Trovaioli, Franco Micalizzi, Berto Pisano, Totò Savio... Nel caso del brano che ricordi tu, e che, guarda caso, da molto tempo è stato preso in considerazione come possibile cover (Stefania è irremovibile in tal senso, e ha stilato una sua lista personale di brani da reinterpretare in futuro), si trattava della trascrizione italiana di un classico di Mikis Theodorakis, musicista comunista greco fuoriuscito ed esule in seguito al golpe dei colonnelli. Questo, specie alla luce del personaggio Zanicchi successivo alla sbornia post-sessantottina, la dice lunga sui meccanismi insiti nel fenomeno delle mode culturali. Nei primi anni ’70, specie dopo l’esordio della strategia della tensione con l’attentato di Piazza Fontana del’11 dicembre ’69, era pressoché scontato darsi all’impegno politico e civile. Tutti stavano a sinistra del PCI, tutti si sentivano investiti dell’onere della “vigilanza democratica” contro l’ormai accertata volontà golpista di vasti settori dello Stato, delle forze dell’ordine e dei militari. Il “popolo” divenne di gran moda e tutti si davano un gran da fare per riconvertirsi come suoi portavoce. Questo ingenerò fenomeni curiosi che, filtrati dal tempo, oggi possiamo permetterci di analizzare con il sorriso sulle labbra e persino con un un pizzico di dolceamara nostalgia. Accadde, per esempio, che cantanti molto amati da un pubblico tradizionale, un pubblico “d’ordine”, potremmo dire, come Morandi, Claudio Villa, Orietta Berti, fossero, per origine sociale o regionale, da sempre solidi elettori comunisti, ma venissero trattati da reazionari solo perché non ritennero opportuno fare piroette stilistiche da un giorno all’altro. Al contrario, gente più conosciuta per repertori leggeri al limite dell’impalpabile che per la coscienza civile, come Anna Identici o la stessa Ombretta Colli, di colpo, cominciarono a voler cantare solo canti della resistenza o delle mondine. Solo brani di autori “perseguitati” dai regimi e solo, anche nelle apparizione televisive, con corredo di “dibattito”.
Anche la Zanicchi, per altro vocalmente molto dotata, non si sottrasse all’iter. Ma non appena si cominciò a vociferare di “riflusso” eccotela, con il naso rifatto, a posare nuda per Playboy e cantare una sciacquatura in salsa italiota dei Bee Gees. Ci fu persino un tentativo, negli anni ’80, di una Zanicchi para-wave con corredo di look dalle linee convertiniane. Abortita anche questa ennesima scelleratezza e dato l’incalzare del tempo e la linea ormai decisamente appesantita, eccotela, infine, trovare il suo alveo naturale alla corte di Papi Silvio nel novero di una trasmissione massaia-pride oriented.
Una storia tutta da ridere. E tutta italiana.


«Dov’eri tu quel giorno?» E voi, dov’eravate? Meglio, dove sareste stati? Immagino che, nello scrivere questa canzone, ci abbiate pensato, vero?

Mercy: Credo sia impossibile saperlo. Furono giorni talmente caotici e gli italiani furono messi di fronte a scenari così inauditi, una monarchia e uno stato maggiore che fuggivano come ladri nella notte, travestiti da guitti da teatro di varietà, per andare a consegnarsi, cappello in mano e piglio da pechinese scodinzolante al nemico del giorno prima mentre il popolo era ancora sotto le bombe, che ogni scelta era, per forza di cose, dettata dalla contingenza dell’attimo. È questa la specificità della tragedia italiana. L’endemico individualismo fatto deflagrare in un contesto di dissoluzione repentina e in uno scenario di tradimento che, credo, non abbia eguali nella storia del genere umano. È doloroso pensare che molti si ritrovarono dalla parte “giusta” dopo aver servito quella sbagliata fino all’ultimo istante, per la pura abitudine a stare a ridosso del potere. Qualcuno ce lo ritroviamo, vecchio come Matusalemme, a pontificare ancora oggi, dopo aver voltato tutte le gabbane possibili e dovremmo pure venerarlo come un incomparabile “magister vitae”. Leggi quell’indecente Scalfari che, con la sua cultura da ginnasiale canuto e la sua prosa da orecchiante crociano della domenica, passa pure per una mente vasta e profonda e per massima punta qualitativa della società.
Ma, siccome non è mia abitudine nascondermi dietro a un dito, non temo di affermare che, conoscendo il mio temperamento, mi sarei ritrovato probabilmente tra coloro che ritenevano che c’era modo e modo di perdere una guerra. Non furono cattivi profeti questi maledetti da Dio e dagli uomini, nonché dalle donne. Questi ragazzini cresciuti a forza di amor di patria e costretti ad assistere allo spettacolo della patria che si metteva a tergo implorando “fa’ di me ciò che vuoi, ma lasciami la vita”. Forse vedevano già in serbo un futuro a base di nasi finti da clown e stimmate eterne di vili e mollicci pizzicatori di mandolini. Forse paventavano un servaggio coloniale, ancorché democratico, dove tornare cortigiani e puttane, intrallazzatori e ascari, al punto di rinunciare per l’eternità alla prerogativa che fa di una massa un popolo, la sovranità, per la gratitudine di averci liberato dal “male assoluto”.
Ma potrebbe anche essere andata al contrario. Tornare dalla Russia lacero, scheletrico e febbricitante, ma vivo. Ed esserlo grazie alle cure dei poveri contadini russi ai quali, magari, avevamo pure ammazzato dei figli. E aver visto centinaia di commilitoni cadere a morire nel ghiaccio, con le mani pestate dai calci dei fucili dei tedeschi per impedire loro di scroccare un passaggio su un furgone funzionante. Dopo aver visto i nostri alleati massacrare con metodo intere messi di indifesi e innocenti solo perché di “razza inferiore”. E avere una gran voglia di raddrizzare un minimo le nostre responsabilità storiche in quell’infamia.
Il problema non è chiederci dove saremmo stati allora, ma dove intendiamo essere oggi.


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