
HELLAS
Né mai più argonauta approderà sulle sponde frastagliate
Né un ruggente Febo irradierà degli Eroi l’eterna estate.
Tace Calliope, qui non canta che il vento:
Sulla strada per Eleusi ti ci sei smarrita dentro.
Hellas, ricordati, quanto dà gusto odiare il tratto inimitabile all’animo volgare.
Hellas, in bilico sul tuo pendio di marmo, bellezza è vulnerabile se più non tende l’arco.
E se anima barbarica giammai patì il tarlo del livore,
Pudibondi germi da usurai ne hanno irrancidito il cuore.
E si definirà rigore calvinista
Barbarie troppo arida per osare una conquista.
Hellas, ora guardati: falangi di accattoni a caritare attonite il bene d’un boccone.
Hellas le aurore tue senza più rosee dita schiudono la tetraggine di un’epoca abortita.
E chissà se più si brinderà con il tuo vino di Rodi
Ad opliti e vergini che ancora danzeranno intorno ai fuochi.
No: mai non capirò come simili seni
Possan nutrire posteri schiavi senza più catene.
Hellas, domandami se i tumultuosi cuori virile sdegno incendierà come se fosse allora.
Hellas, risponderei: esporta la tua rabbia, rendici il cuore d’un poeta che arse sulla sabbia.
Hellas rialzati, serra le schiere adesso, batti il tuo tempo sugli scudi, segna anche il nostro passo.
Hellas, la fiaccola è spenta nella brina, possa il coraggio accendere presagio di un mattino.
COME FERRO BATTENTE
Verranno ad inchiodarti alle più sciape aspirazioni:
T’imporranno di sognare più realista del reale.
Inflessibilmente ti prescriveranno i toni
Ed il lecito frasario quando e se potrai parlare.
Ma è in fondo evidente: solo da chi dissente
Ormai ci si aspetta la lingua più corretta, ma…
Nazione…
Cos’altro ormai inventerai, quali parole sceglierai per ingannarti ancora?
Per poterti dire che è normale, che la suola da leccare
E’ pur sempre d’alta qualità?
Mentre già sai che donerai inerme gli olocausti che dovrai a quell’immondo altare
E che ti è interdetta ogni reazione dagli appelli alla ragione,
Alle regole, alla stabilità.
Ma di quel realismo spetta a loro stabilire
Quasi quotidianamente ogni limite vigente,
E per quell’equa svolta che non cessi di pietire
C’è un bel due di picche in serbo, ma autorevole, s’intende.
Ma un dubbio ti sfiora: giustizia non s’implora,
Occorre inventarla la forza d’intimarla, ma…
Nazione…
Ci creperai così come sei: sfatta, imbelle e passaguai, sdubbiata e sediziosa.
Incapace d’ogni intransigenza, senza il gusto dell’oltranza,
Ma in difetto di pietà.
Dammi, semmai, ciò che tu hai sempre e non dismetti mai: l’ambiguo charme del peggio.
Fa’ che non si estingua il mio disprezzo, che non venga meno adesso
La mia truce inattualità.
Perché mi vorrei come non sei oggi e non diventerai: un margine tagliente,
Estremo materiale resistente, ferro rapido e battente,
Detestabile lucidità.
RESURGENTE
Ricordo come in sogno quella sera:
Nel cielo la promessa della neve
Il coprifuoco ed un rintocco greve
Di campana che annunciava un’agonia.
Stringendomi nel collo di pelliccia,
Nel buio, sotto l’arco d’un portone,
Tremavo per il freddo e la tensione,
Paventando d’una ronda là per là.
Avantieri alla Prima della Scala
Si sollevò di colpo la questione,
Con noi che si lanciava dal loggione
Dei tricolori in carta e dei pamphlets.
Non ce lo perdonò, davvero proprio no,
Lo sgherro dell’Asburgo rappresaglia ci giurò.
E il popolo, chissà, se infine capirà
Che battersi non è capriccio, ma necessità?
Ricordo l’alta sagoma stagliarsi
Sull’alone d’una luce lattescente,
Scostai la mia veletta e poi rasente
Al muro mi sporsi: “Sono qui!”.
Poeta, ventun’anni e un gran sorriso,
Si mormorava fosse un miscredente,
Ma temerario lo era certamente,
Correndo il rischio con serenità.
Mi consegnò il dispaccio: “Voi sapete
Che farne, siamo nelle vostre mani.
L’insurrezione scatterà domani,
Siete un angelo: Iddio vi aiuterà”.
Mai mi scorderò, la mano mi sfiorò
Mi disse: “Se vorrete, per voi sola io vivrò.
Ma nella libertà, perché non ci sarà
Domani, se anche noi poi si vivesse di viltà”.
Ma era l’Ottocentoquarantotto,
Lui si arruolò, partì, non sopravvisse.
Caduto in quel di Goito, mi si disse,
Qualcun lo pianse e poi dimenticò.
Passarono decenni come treni
Lanciati sopra il Vecchio Continente,
Pur tuttavia mi accadde di sovente
Di ripassar davanti a quel portone.
Morire avrei dovuto quella sera
Con il mio tempo e gli ideali intatti,
Un cuore in pegno e i diciott’anni fatti
Nell’anno in cui sognammo una nazione…
CANONE EUROPEO
Amore mio, dimmi cos’è che vai cercando in quei vecchi caffè
Vuoi dirmi tu che nome ha ciò che ti strazia a una Nuit à L’Opera
Perché a Baden-Baden, a Bruges, a Saint-Malo consolan d’autunno di piogge i rondò.
Sebbene a voi che vivete a diporto le piogge dovrebbero dare sconforto.
E ti sarà dolce ancor più naufragare nella plenitudine del Vittoriale
Poi come ogni volta ammutolirai di fronte a un capriccio di Ludwig der Zweite.
Mio capitano, portami via con te…
Mio capitano, portami via con te…
Reminiscenze che affollano mondi interiori
O solo lussuose location per pubblicità?
A voi la risposta turisti del mondo di fuori,
Ma noi che siam dentro sappiamo che il Canone è qua.
Se dell’Excelsior rammenti i Gala ed eri l’altr’anno anche tu a Marienbad,
Spiegarmi ora di certo puoi cos’è che concilia Busseto e Bayreuth.
Perché una Fenice rinasce uguale dal rogo di un’altra sul mare fecale
D’una Venezia che è un fondale solo dov’anche una copia assurge di ruolo.
Perché sempre a Mayerling s’ammazzan gli amanti e a Toblach dislocano sempre i morenti,
Perché di Nižinskij la grazia euclidea del moto sarebbe la divina Idea…
Avventuriero, portami via con te…
Avventuriero, portami via con te…
Eppure l’eccentrico arredo che è sopravvissuto,
E’ il solo decoro che resta d’una civiltà.
Asserragliatevi pure in un cubo fottuto
Eluso da vetri specchiati, ma il Canone è qua.
Dissolte in un’ora frontiere che furono pire
Per cento milioni di vite e che sia Umanità.
Per ora mi pare che abbiate un problema di stile,
Potrete anche riderci sopra, ma il Canone è qua.
LE RITAL
Chi sono Picasso e Apollinaire?
Forse bohémiens, Futuristi o imbrattatele?
Sarà che qui giornali non ne leggo,
Ma chi li ha mai sentiti nominare?
Qualcuno sta cercando di incastrarli,
Ma a loro pare quasi non dispiaccia,
La gente che s’accalca per vederli:
Tanto basta per metterci la faccia.
Vi dirò:
Lei sorride solo a me,
E tout le monde va chiedendosi dov’è
E chi sarà
Quel Fantomas, quel Rocambole,
Forse il Lupin, insomma il folle genio che fa bestemmiare la Sûreté.
Très bien, c’est moi: un tinteggiatore.
Un italien, mon Dieu quale orrore!
E già mi immagino la delusione vedessero in faccia il cafone che ha preso il grisbì.
Io sono le Rital
Con la R di un esercito di rane,
Il pezzente che ti porta via il lavoro
E le tue figlie mette a fare le puttane.
Per loro resto sempre le Rital
Il tagliaborse con la pelle troppo scura
E i miei compagni tutti rossi o anarchistes
Son stati i primi a procurarmi vita dura!
Tutto ciò,
Lo so, non ci risarcirà
Ed il maltolto semmai col tempo crescerà.
Ma resta che,
Sul far dell’alba in quel del Louvre,
Questa canaille ha colto l’attimo ideale per lo schiaffo originale,
E ho scelto Lei: il vanto dei vanti d’un gran bottino di ladri arroganti
In più avanzanti diritti imperiali, non bastando formaggi e maiali alla loro Grandeur.
Io sono le Rital
E ho preso Monna Lisa come ostaggio
E’ chiusa qui in valigia, sotto il letto,
Sorride ancora mentre si prepara al viaggio.
E ve ne restan tanti di Rital
Dentro al Louvre fino a farlo straripare
Ma voi che noi imbianchini deridete
Tenete a mente che sorprese si sa fare!
C’est moi!
ROMBO DI GIOVANE ALA
L’estremo azzardo precisa l’obiettivo
Saremo un dardo, un temporale estivo
Oltre questa canicola l’Inaudito
Voi siete là: come ignorar l’invito?
Il Comandante ci dice:
“Oggi si osa davvero!
Domani chissà, ma in quest’ora
Sarà tutto ciò che vorremo”.
Poi l’elica insegue ed azzanna
Discordi correnti di ascesa,
Se la gravità è una condanna
Lassù noi l’avremo sospesa.
Quasi uno spasmo è l’afferrar la quota
E il vento che turbina e incalza in coda
Mandarci in pezzi pare lo prenda a cuore
Strano che poi s’arrenda ad un motore.
Su balze di sangue rappreso
E disseminate di ossa,
Si vola con l’animo acceso
Più in alto di quanto si possa.
E se oltre ogni dove è l’arresto
Che solo si possa accettare,
Nel cuore il presagio molesto
Che mai più avremo un giorno migliore.
E già delle Alpi la chiostra abissale
Spalanca un titanico abbraccio,
E’ strano essere grati d’un rischio mortale
Promessi alla roccia ed al ghiaccio.
Ma è volo di punta di lancia temprata
Qual Parca potrà deviarla?
Ci aggrada l’onore d’averla scagliata
L’ebbrezza che dà il cavalcarla.
Che senso ha un volo disarmato?
Eppure già l’eterno ha riecheggiato.
Si dissimula in seno alla beffa il sacro
Non chiederà sangue per il lavacro.
Dileggio che è flusso incendiario
Per bombardarvi di onta,
Voi siete il brutale ordinario
Noi siam noi ed è quello che conta:
Un rombo di giovane ala
Che viene a frugarvi nel cuore,
Vi porge un rinnovo di sfida
E omaggi alle vostre signore.
Cosa si prova nel culminare:
Davvero poi giova spiegarlo?
Per questo noi si continua a volare
Mentre un popolo ha smesso di farlo.
E quante tragedie domani vedremo,
Quante ingiustizie e afflizioni
Per quel coraggio venuto poi meno:
D’essere soltanto i padroni.
L’ALBA DELLE CENERI
Neppure un lucernario rischiara quel passage
Ma rade e agonizzanti fiamme di lumi a gas,
Lividi fuochi fatui d’un altro Père Lachaise
Per la sprezzante veglia all’empio La Rochelle.
Un nero latte all’alba trangugerà Celan
La Senna barbiturica la sceglierà Klaus Mann.
E per scontar la colpa di certe Bagatelles
S’arrenderà a uno spettro l’incauto Denoël.
L’onda glaciale si alza d’una novissima wave
Nel Métro de Paris c’è una corsa che attende la sua Jean Seberg.
Su analogo ferro si schianta il Druido del Blues, Graham Bond
Perché in questo secolo sbanca il Conte di Lautréamont.
Giova spararsi in faccia in nordici chalet
Il solo “Addio Alle Armi” che ti puoi dare da te.
Ma se la munizione consiste di Armagnac,
C’è Joseph Roth nei pressi: basta trovarsi là.
Polsi squarciati al modo del Testimone Weiss,
Letto a due piazze e piombo in stile Vogel-Kleist.
Puoi calibrare a lima un pomo di teiera,
Dire “buona la prima”, come Potocki insegna.
Teme i papaveri, Sylvia: a suo nome nessun poppy day,
Beffarda, arianissima morte, c’è lì Robert Howard con lei.
Regalaci un bel kitchen drama, stavolta virile, però
E un’alba di cenere e marmo uno stendipanni scattò.
Dimmi di Yukio Mishima e del suo furente ideale,
Di stanze d’albergo a Torino, di cappi e di trombe di scale.
E della tragedia fondante, di come e perché sia scomparsa,
Di come si muoia per niente da quando si vive di farsa.
BENVENUTO
Da quella salamandra che scorsi un giorno tra le fiamme
D’un focolare avito fare sosta e uscire indenne,
E dal veleno uranico del più letal scorpione
Trassi umor salvatico e araldico blasone.
Se dell’orafo il cesello nessun più vide eguale
Se l’ardore mi provvide di teste da tagliare
Medesima mano s’armò
Di sgorbia, smeriglio o brandistocco.
Gran bagascia vita, ognora il tuo dado hai tratto e lanciato,
Scrofa incimurrita, finché sei durata più forte ho puntato.
Bella e senza onore mi hai vinto anche il cuore,
Ma il conto ho saldato
Ora
Chi potrà negarmi amore, ora,
Che col fuoco delle stelle mi farò una nuova pelle?
Cercai centro mirabile tra la tenebra e il fulgore
Provai il momento estatico nel pericolo ulteriore,
Trovai tra bestie autentiche gli amici più fedeli,
Somari e cagne bipedi li persi volentieri.
E poi rovesciai un assedio col polso mio da drago,
Puntando dritto al collo di quello più alto in grado.
Né mai piaggeria procurò
Onori e baiocchi non meritati.
Sbeffeggiai l’ottuso, scalciai il farabutto, irrisi il santocchio
Per goder sul muso del bestiame tutto che ebbi sott’occhio,
Principe o canaglia, ma son Benvenuto e un nome non sbaglia.
Ora
Chi potrà negarmi onore, ora,
Che è col verme della terra che principierò una guerra?
Ne forgiai di mirabilia, chimeriche o silvestri
Ninfe, efebi e poi conchiglie ed ephemere grottesche,
Filosofi ermetici o no
Predai cosce sode e culi alti.
Ora che è finita, di turpe vecchiezza mai sarò malato,
Chiudo la partita, sarò la bellezza che un giorno ho donato.
Viaggio nella sera, mai sarà galera un corpo lasciato
Ora.
NESSUNA CROCE MANCA
A tutti gli illustrissimi maestri cucitori
Di bocche lascio in dote quaterne di guanciali:
Il sonno dell’Ingiusto di certi lorsignori
Più a cuore ho del villano che guarda i suoi maiali.
Vi voglio lustri e lieti nel brago d’ordinanza
Che è la resulta sola di antiche investiture,
Solenni quanto serve nel caso circostanza
Richieda vecchia merda e nuove cuciture.
Ciò che v’imbarazza poi è
Un lascito che tengo per me.
Un duro idioma che fu forgiato in alto mare
Dal vento, ecco perché nulla più lo può strappare,
Una volontà d’onore e di onestà nel solco d’una stirpe d’artigiani.
Un ricordo per quei caduti senza croce,
La cui verità più non trova alcuna voce,
E l’orgoglio di trovarmi adesso qui con questo testimone tra le mani.
Del vostro zelo ancora mi onoro d’esser spunto
Per quanto sia seccante sapermi inoffensivo,
Ma c’è una malafede nel vostro fare unto
Che amo smascherare: mi fa sentire vivo.
Davvero solo devo alla vostra tracotanza
Tenacia che natura non mi ha voluto dare,
E insieme col dovere della testimonianza
M’ha posto un veto al lusso del semplice invecchiare.
Malgrado i miei logori eroi,
Resisto, spiacente per voi.
L’immoralità sta nel non soffrire affatto
Di fronte alla realtà d’uno scempio ancora in atto,
Nella non-ammissione che essere nazione vuol dire in primo luogo preservare.
Ma ciò che resterà di un paesaggio senza eguali
Non si salverà dagli spiriti animali
Di progressisti armati, famelici mercati, democrazie ben liete d’ammazzare.
Dovessi poi restare solo contro il mondo intero,
Al costo di sembrare più che uomo un cimitero
Che tiene in sé celate memorie e storie obliate,
Nessuna croce mancherà davvero.
CUMMANDAR AS SHAITAN
E più ci rifletto e meno so dire
Cos’è che alla lotta t’incolla
Quand’anche un somaro potrebbe capire
Che ha dietro una causa che crolla.
Ma so che non arrendersi risponde ad una logica:
Non adeguarsi a un ruolo ignobile.
Credete a me se dico che…
L’Italia che si batte qui è solo gente d’Africa
Vorrei la vedeste perché, in fede mia,
Mai truppa che ho guidato è stata più così impeccabile:
Autentica Cavalleria.
Chiedete, per quello che ormai può servire,
A chi già marciava a paranza
Che breakfast a base di polvere e bile
Gli abbiamo servito ad oltranza.
Di come quelle cariche di cavalieri nomadi
Tenessero in scacco eserciti.
Credete a me se dico che…
Gli si cavò di dosso quello sprezzo dell’indigeno:
Da schiene fuggiasche evapora al volo
Ai miei guerrieri debbo ciò che resta in me di nobile
Abdellah Al Redai il mio ruolo.
Cambio fondale per l’atto secondo
Quel tempo di pace a lungo agognato
Ci giova lo schiudersi d’un intero mondo,
Ci costa in postura da can bastonato.
L’Italia su tutto si serve comunque,
Ma stando alla larga perché, non a caso,
Mi riesce assai meglio di farlo dovunque
Non spreco i miei giorni turandomi il naso.
E dir che gli indizi già c’erano al tempo
In cui si epuravano i figli bastardi,
E quanto disgusto provavo vedendo
Eletti ad eroi i peggiori codardi.
Sotto il cielo d’Irlanda, lì cavalco adesso
Mi è grato anche il puzzo della scuderia,
E persino il rischio di rompermi un osso
Lo prendo con araba filosofia.
E qualche notte ancora sogno un’altra folle carica
Vi rivorrei tutti di nuovo con me
Per assaltare il cielo, e mi si scusi la retorica:
Firmato Amedeo dei Conti Guillet.
PATMOS
Di nuovo è tempo che l’antica Thera
Oscuri il sole d’ogni continente,
Che eriga fino al cielo la sua nera
Torre incandescente
Di fumi, che della Terra irata
Sono respiro stesso e lingua viva,
Al modo di un leviatan che sfiata
La bile sua sorgiva.
Che letargico Marsili come Crono
Si erga dall’abisso dei Tirreni
E trovi il suo Saturno infine prono,
Inerme a franti reni,
E che possa ogni carne generata
Per l’ultimale, funebre banchetto
A piatto culminal disporsi grata
Come morente al letto.
Dove iniziò finisce l’esausta civiltà
E l’empia Meretrice al trono ascende già.
S’oscura nel lamento d’un angelo in silicio
Di Dei negletti è il tempo: a loro il sacrificio.
The Leading Horse is white
The Second Horse is red
The Third One is a black
The Last One is a green.
Che saettante astro s’avventasse
Su nuova Atlantide l’immonda
E Poseidon nel levarsi l’affondasse
Con sola immane onda.
Possa della pietra l’icore dannato
Tornare alla dimora tenebrosa
Degli antri dove ciò che vivo è stato
Ora è marea viscosa
Come dell’era carbonifera i titani
Ridotti a nera forma minerale
Riestorti e poi lanciati a piene mani
Da Efesto l’industriale
Nella gran fornace che consuma infine
Lo stesso artefice con l’olocausto gregge
Che Atropo tagliar voglia quel crine
Che ancora lo sorregge.
Viventi d’ogni tempo, un solo gran falò:
Lo avranno dentro il vento il loro melting-pot.
In esodi celesti milioni d’anni ancora
La Terra che ci scorda, la Terra che respira.